martedì 22 marzo 2016

Un viaggio nel passato alla ricerca del futuro (1.b)

Ci eravamo conosciuti all’università. Io, matricola poco più che diciottenne alla facoltà di lettere, frequentavo un corso di scrittura creativa sperimentale di cui lui era il coordinatore didattico. 
Andrea aveva ventotto anni e aveva qualcosa di estremamente affascinante che mi aveva colpito sin dal momento in cui i nostri sguardi si erano incrociati per la prima volta, tanto da indurmi a riempire pagine intere del mio diario con il nome di lui circondato da cuoricini, come una tredicenne invaghita.
La prima volta che lo avevo visto era appoggiato al muro del corridoio accanto alla porta dell’aula. Era senza dubbio carino, indossava una maglietta bianca girocollo, una di quelle che spesso gli uomini usano sotto le camicie, e jeans chiari che aderivano alle sue gambe magre. Ai piedi aveva un paio di Converse All Star di colore blu. 
La scelta dei vestiti e delle scarpe incontrava perfettamente i miei gusti, oltretutto, quel giorno, anche io avevo un paio di scarpe identiche. 
Iniziando a fare la conta delle cose in comune quando ancora nemmeno lo conoscevo, io, che amavo i ragazzi dalla faccia pulita, preferibilmente rasati e ben pettinati, mi ero ritrovata a fissare i suoi strani capelli chiari, folti e completamente spettinati. Erano più lunghi di quello che consideravo piacevole in un uomo e sembrava che non avessero incontrato mai un pettine, non nelle ultime ore perlomeno. Aveva la barba chiara, incolta, un altro aspetto che di solito non mi piaceva. Ma era innegabile che i capelli spettinati e la barba incolta gli davano un aspetto da bel tenebroso che mi aveva colpito molto più di quanto mi sarei mai aspettata. 
Io sapevo chi era, anche se non conoscevo il suo nome. Era l’assistente della De Paolis, una professoressa arcigna che ricordava la signorina Rottenmeier e che insegnava la mia materia preferita: scrittura creativa. Probabilmente era anche la sua materia preferita, avevo pensato compiaciuta mentre lo guardavo in corridoio, continuando a fare la conta delle cose in comune. 
Quando ero passata davanti a lui, mi aveva guardato per qualche istante intensamente e con aria pensierosa. Io, che lo stavo fissando già da qualche secondo di troppo, avevo abbassato lo sguardo quasi istintivamente e poi era arrivata Marta, una delle mie colleghe di corso, che mi aveva trascinato in classe. Avevo sentito lo sguardo di lui su di me mentre oltrepassavo la porta.

In aula, dalla cattedra, lui non aveva fatto altro che guardarmi sfacciatamente per tutto il tempo in cui aveva parlato alla classe, illustrando, apparentemente senza alcuna distrazione, il programma delle lezioni. Il suo sguardo era inequivocabile, i suoi occhi erano lucenti, felici e famelici. Mi guardava intensamente, quasi con desiderio, sembrava che mi stesse letteralmente spogliando con gli occhi. 
Io avevo ricambiato il suo sguardo ostentatamente, con il cuore che saltava battiti e poi accelerava improvvisamente, rapita dai suoi occhi smaliziati e sorridenti, che lo facevano sembrare molto più giovane della sua età e che mi avevano fatto fantasticare per tutto il tempo della lezione, catapultandomi in un mondo fantastico in cui io ero la principessa e lui il mio principe azzurro. Il suo sguardo smaliziato e impertinente mi ricordava Terence, il grande amore di Candy, o almeno l’immagine che avevo di lui dentro la mia testa.
E, ovviamente, non avevo sentito nulla di quello che lui aveva detto. 

Alla fine della lezione, proprio mentre chiedevo delucidazioni sul programma a Marta, che era in piedi di fronte a me, lui era sbucato alle sue spalle e mi aveva lanciato un altro dei suoi sguardi, facendomi sciogliere. Poi, sorprendendomi, con un sorriso, mi aveva chiesto se potevo seguirlo fuori dall’aula. Marta si era prontamente fatta da parte, dileguandosi, prima ancora di sentire la mia risposta: il mio sguardo probabilmente non lasciava dubbi su quale sarebbe stata. Sì, senza dubbio. Come se ci conoscessimo da sempre, lui mi aveva messo un braccio intorno alla vita e mi aveva condotto fuori, senza staccare i suoi occhi dai miei. 
Era una giornata bellissima, il sole era caldo e io mi ero fatta trasportare, sentendomi leggera come una libellula, in giro per il giardino rigoglioso, fino a raggiungere un posto che non avevo mai visto. Ero stata troppo distratta dal suo sguardo per comprendere come fossimo arrivati lì. 
Avevo chiesto stupita dove fossimo finiti. Lui aveva ridacchiato e, invece di rispondermi, mi aveva chiesto, continuando a tenere il suo sguardo fisso nei miei occhi:
‒ Come ti chiami?
Per un attimo mi era sembrato di non riuscire a ricordarmelo, ma dopo qualche secondo ero riuscita a rispondere, con il cuore in tumulto.
Dopo esserci presentati, mi ero soffermata per diversi minuti a osservarlo, quasi incredula che quest’uomo, che mi faceva battere il cuore in modo folle e i cui sguardi mi toglievano la capacità di pensare, fosse davvero lì con me. Me ne ero già innamorata perdutamente. Mi ero chiesta se capitava a tutti gli innamorati di provare queste sensazioni sconvolgenti e se era davvero il principe azzurro.
Pochi minuti dopo era venuto qualcuno a chiamarlo e l’incanto si era rotto. Con un sorriso mi aveva salutato ed era sparito fra gli alberi, lasciandomi frastornata. Ero tornata indietro con la testa tra le nuvole e avevo incontrato Marta che mi aveva sorriso compiaciuta, con una gran curiosità negli occhi. 
Ero troppo eccitata per tornare a casa senza parlare con nessuno e avevo colto al volo l’occasione per dare uno sfogo alle mie sensazioni, anche per accertarmi che fosse tutto vero e non un sogno. Ovviamente anche lei aveva notato gli sguardi… Le avevo raccontato quello che era accaduto e già mi sentivo la principessa delle favole, e poi ci eravamo salutate. 
Avevo trascorso il pomeriggio a fantasticare, scrivendo il suo nome sul diario, carica di aspettative per l’indomani. Immaginavo già che mi avrebbe portata di nuovo in giardino e che magari mi avrebbe baciata. Non pensavo mai che avrei baciato un ragazzo appena conosciuto, ma non mi sarei stupita se ciò fosse accaduto: l’attrazione tra noi era evidente.

L’indomani, però, inspiegabilmente, lui aveva infranto i miei sogni: non mi aveva nemmeno salutata e non mi aveva degnata di uno sguardo, i suoi occhi sembravano spenti. Non mi ero fatta avanti e non avevo chiesto spiegazioni. La mia reazione al suo comportamento assurdo era stata tanto sgomenta che, piuttosto che credere che stesse accadendo, mi ero costretta a dubitare della mia sanità mentale: forse non era davvero lui quello che mi aveva lanciato quelle occhiate dense di significato e mi aveva portato a passeggiare in giardino abbracciati. A casa avevo pianto tutto il tempo, disperata come se la mia vita stesse andando in pezzi. 
Era trascorsa così tutta la settimana. Senza parole né sguardi. 
Il lunedì successivo mi aspettava. Appoggiato ad un palo della luce, con la maglietta bianca e le braccia conserte, un sorriso amichevole e gli occhi allegri, era rimasto a fissarmi mentre, ignara del suo sguardo su di me, parcheggiavo in prossimità del cancello. Quando lo avevo visto, il cuore mi si era fermato e istintivamente un gran sorriso era affiorato sulle mie labbra e non sentivo più le gambe. Avvicinandosi, tendendo verso di me entrambe le braccia, mi aveva sussurrato teneramente e con molta emozione:
‒ Ciao. Mi sei mancata. 
Poi mi aveva abbracciato, tenendomi stretta, il mio viso affondato nel suo collo. Io non avevo capito più nulla: mi sembrava di volteggiare nel cielo e avevo perso completamente la lucidità. Se ne era reso perfettamente conto: aveva sorriso, mi aveva sollevato il mento con la mano e mi aveva baciata. Non era il primo bacio che davo, ma di sicuro era il primo bacio perfetto. Eravamo rimasti diversi minuti a baciarci, incuranti del fatto che fossimo davanti all’università e che chiunque avrebbe potuto vederci. Personalmente non avevo nulla da nascondere e non me ne importava nulla e a quanto pareva era lo stesso per lui. Quando era riuscito a staccarsi dalle mie labbra mi aveva abbracciato di nuovo e poi mi aveva guardato fisso negli occhi, dicendo quasi divertito: 
‒ È stato anche meglio di quanto avessi immaginato. Ho sognato questo bacio per tutta la settimana.
Le sue parole mi avevano fatto catapultare nella realtà: tutta la settimana scorsa lui non mi aveva nemmeno salutata e ora mi stava dicendo che aveva sognato di baciarmi. Molte espressioni colorite mi erano venute in mente in quel momento. 
‒ A proposito… 
Gli avevo sussurrato, ancora abbracciata a lui, cercando di mitigare la rabbia che mi assaliva quando pensavo a come mi aveva trattato. Il sorriso era svanito dal suo viso alla mia inespressa domanda e mi aveva guardato con tenerezza e tristezza. Aveva probabilmente soppesato le parole per qualche secondo e poi aveva detto, con gli occhi fissi nei miei:
‒ La mia vita è un casino. Faccio cose molto pericolose, di cui non posso parlarti e non posso avere una storia con te, oltretutto sto per sposarmi. Quando ci siamo conosciuti ho capito che tu sei quella che ho sempre cercato. Ti ho evitata tutta la settimana perché temevo che succedesse quello che è successo e, nel contempo, lo desideravo con tutto me stesso. Oggi, quando ti ho vista arrivare, mi sono arreso. Non potevo più fare finta che tu non esistessi, ti desideravo troppo.
Nel pronunciare l’ultima frase del suo discorso, le guance gli si erano colorate di rosso e mi aveva accarezzato la guancia. Ero rimasta imbambolata a fissarlo, incredula. Sapevo perfettamente che una ragazza con la testa sulle spalle avrebbe dovuto allontanarsi da lui in quel momento, ma non ci ero riuscita. Ero rimasta tra le sue braccia per quello che mi era sembrato un tempo interminabile, sperando irrazionalmente che il tempo si fermasse, congelandoci in quella posa, insieme per sempre. 
Con la coda dell’occhio, ad un certo punto, avevo visto Marta che ci guardava. Ero sgusciata via dalle sue braccia, imbarazzata, mormorando:
‒ Io entro. Scusa.

Durante la lezione Andrea mi aveva guardato spesso, sorridendo, senza perdere mai il filo del discorso e ad un certo punto aveva fatto una battuta, che ero certa mi riguardasse, sul destino e sulla sua ineluttabilità. Avevo ricambiato i suoi sguardi, sicuramente con la stessa intensità della prima lezione, ma con un’espressione confusa dipinta in viso. Ero imbarazzata, non sapevo davvero cosa avrei dovuto pensare. Alla fine della lezione, mi aveva invitata a pranzo. I miei sentimenti avevano avuto la meglio sulla ragione e avevo accettato, a dispetto di qualunque buona norma comportamentale. Era il nostro primo appuntamento.
Eravamo stati a prendere un gelato al lungomare e, durante una bellissima passeggiata, ci eravamo raccontati pezzi della nostra vita, scoprendo di avere tante di quelle cose in comune che le avevamo annotate su un foglio per poterle contare. Erano quarantuno. “Anime gemelle” avevamo esclamato, all’unisono, guardandoci negli occhi. Ci eravamo chiesti, ridendo, che quota avremmo raggiunto dopo qualche giorno di frequenza reciproca. 
Quel giorno Andrea mi aveva parlato del suo imminente matrimonio di copertura con una donna, una sua cugina di secondo grado, cui era promesso da quando era poco più che bambino. Non mi aveva detto nulla delle cose pericolose di cui mi aveva parlato la volta precedente, e mi ero immaginata che si trattasse di affari di servizi segreti o malavitosi. In entrambi i casi, avrei fatto meglio a starmene alla larga. Mi aveva parlato molto sinceramente di quello che provava. Dicendo di odiare se stesso per la sua debolezza, mi aveva detto che non aveva nessuna intenzione di mettere a repentaglio la sua vita a causa mia, anche se manifestava fin troppo chiaramente quanto io lo avessi colpito, con gesti e parole, stupendo se stesso, oltre che me. 
Sei colei che ho sempre cercato, è un peccato averti trovato così tardi. 
Mentre mi raccontava annoiato del suo matrimonio, dopo diverse ore di conversazione, Andrea mi aveva guardato serio negli occhi e, a bruciapelo, mi aveva chiesto:
– Tu mi sposeresti?
Ero arrossita e il cuore aveva preso a battermi all’impazzata, era la prima, per quanto insolita, proposta di matrimonio che ricevevo! Lui non stava scherzando, l’alchimia tra di noi era più che evidente. Non sapevo cosa rispondere: istintivamente avrei voluto dire di sì e buttargli le braccia al collo, ma, considerata la situazione delicata in cui si trovava, avevo deciso di essere un po’ meno impulsiva e, simulando una tranquillità che non sentivo, avevo risposto seriamente, rovinando il momento assurdamente romantico:
– Sposarti? Non ci conosciamo nemmeno e io sono ancora troppo giovane per pensare ad un passo così importante… Sono sicura che io e te avremmo una storia fantastica, se potessimo stare insieme, ma, sinceramente, se me lo stessi chiedendo davvero, direi di no.
La mia risposta aveva rabbuiato per un attimo Andrea, ma cosa poteva aspettarsi di diverso? non si poteva chiedere la mano ad una ragazza appena conosciuta, con cui ci si era scambiati appena un bacio e, per di più, essendo fidanzati con un’altra (anche se per copertura, per chissà quale losco affare)! 
Era rimasto pensieroso per qualche minuto, poi si era avvicinato a me e mi aveva dato un bacio sulla fronte, dicendomi: 
– Se potessi dirlo, in questo momento ti direi che ti amo.
Quelle parole mi avevano scioccata, forse ancora più della proposta di poco prima, e ero rimasta zitta a fissarlo, mentre tristemente mi guardava negli occhi e mi accarezzava i capelli. Poi aveva sorriso e aveva iniziato a parlare di stupidaggini. Non si aspettava una risposta, non ne aveva bisogno. 
Il nostro commiato quella sera era stato molto triste. 
Lui, sebbene sembrasse innamorato di me ogni minuto di più, non mi aveva dato alcuna speranza. Con evidenti rimpianti, ci eravamo salutati dicendoci che non avremmo dovuto più vederci al di fuori delle lezioni.

I giorni seguenti a lezione erano stati molto tristi: non eravamo rimasti soli un momento e soltanto i suoi profondi sguardi mi ricordavano che non era stato un sogno. 
L’ultimo giorno era stato il più angosciante, lui si sarebbe sposato da lì a breve. Gli avevo fatto gli auguri per il suo matrimonio, davanti ai colleghi di corso, ed ero andata via senza poter dire altre parole, sentendo, per tutto il tragitto sino alla macchina, lo sguardo di lui bruciare sulla pelle.
Era trascorsa una settimana, una delle più tristi settimane estive dei miei diciotto anni. Non avevo messo il naso fuori casa nemmeno un momento per sette interi giorni.
Una sera Marta, preoccupata per il mio malumore, mi aveva convinta ad andare con lei e qualche amico ad un concerto in piazza. Si esibiva un gruppo locale che avrebbe eseguito una versione semplificata dei Carmina Burana di Carl Orff. Io adoravo i Carmina Burana, Marta lo sapeva e aveva colto l’occasione, pensando di riuscire a distrarmi.
La piazza era gremita, non pensavo che tutte queste persone amassero la musica medievale. Ben presto il gruppo era arrivato ed aveva iniziato ad esibirsi. Ascoltavo assorta il concerto, trattenendo a stento i singhiozzi, mentre le lacrime scendevano copiose sulle mie guance, per l’emozione che quella musica riusciva sempre a trasmettermi e, improvvisamente, un movimento nella fila davanti a me aveva catturato la mia attenzione, distraendomi e inducendomi a guardarmi intorno. 
Con estremo stupore e felicità incontenibile, in quel momento mi ero accorta che in piedi qualche metro davanti a me c’era proprio Andrea. Non potevo esserne certa perché eravamo tutti pressati come sardine in scatola, ma non sembrava essere in compagnia. Immediatamente avevo pensato che magari si erano lasciati, ma subito avevo realizzato che non era proprio la cosa più probabile, anche perché, in quel caso, lui mi avrebbe di sicuro fatto almeno una telefonata. Ero rimasta indecisa sul da farsi per qualche secondo, poi la sua presenza davanti a me mi era sembrato un chiaro segno del destino e, facendomi largo tra la calca, lo avevo raggiunto e gli avevo bussato decisa sulla spalla.

Non dimenticherò mai l’espressione del suo viso, di sorpresa e felicità, con gli occhi che brillavano come diamanti nella penombra della sera. Eravamo scoppiati a ridere, attirando l’attenzione dei vicini e anche di Marta che non avendomi più vista accanto a lei, si era messa a cercarmi con lo sguardo e, vedendomi ridere un paio di file più avanti, mi aveva lanciato uno sguardo lievemente spaventato, temendo per la mia sanità mentale (ridere ascoltando i Carmina Burana non è da persone con tutte le rotelle a posto), prima di rendersi conto di chi c’era vicino a me. 
Senza nessun rimpianto avevamo deciso di andare via: lui era davvero solo, non stava piantando nessuno e io avevo chiesto scusa a Marta che, per fortuna, aveva capito perfettamente.
Era una serata bellissima e la luna era quasi piena, avevamo camminato abbracciati senza parlare, dirigendoci verso il lungomare. Al porticciolo turistico ci eravamo coricati fianco a fianco su un blocco di cemento, guardando le stelle. Non c’era nulla di più bello. Sapevo che non avrei dovuto sentirmi tanto felice, la situazione non era cambiata dall’ultima volta che avevamo parlato, ma i nostri sentimenti reciproci sembravano essere ancora più forti.
Poi era accaduto tutto molto velocemente. 
Il corpo di Andrea, aderente al mio, aveva iniziato a tremare e io mi ero girata sul fianco per chiedergli se avesse freddo. Lui si era girato verso di me, sussurrando parole confuse per dirmi quanto mi desiderava in quel momento e ci eravamo trovati a pochissimi centimetri di distanza. Senza pensare alle conseguenze, ci eravamo stretti in un abbraccio e un bacio molto meno casto dell’unico che ci eravamo dati qualche settimana prima. 
Dopo qualche minuto, ci eravamo allontanati e lui mi aveva detto che mi amava. Io allora mi ero alzata e gli avevo teso la mano e, senza parlare, lo avevo condotto verso una zona più riparata del porticciolo, in cui si trovava una spiaggetta, che alla luce della luna aveva un aspetto molto romantico. Lui mi aveva guardata con aria interrogativa e, dalla sua espressione smaliziata e carica di aspettative, avevo capito che non era poi così lontano dall’aver intuito cosa stavo per fare. Continuando a guardarlo negli occhi, mi ero tolta i sandali e poi mi ero sfilata il vestito leggero, lasciandolo cadere accanto a me. Ero in biancheria intima e, per fortuna, quella sera avevo optato per un coordinato azzurro che mi stava d’incanto. Lui aveva sfoderato un sorriso irresistibile, carico di dolcezza e si era avvicinato per abbracciarmi. Mi aveva detto che ero bellissima. Poi si era spogliato anche lui, e, tenendoci per mano, eravamo entrati in acqua. 
È difficile descrivere le emozioni di quel momento. Era la prima volta per me ed è stata con la mia anima gemella. E, oltre questo, lui aveva dimostrato una sensibilità e una dolcezza che, prima di allora, ero riuscita ad immaginare solo nei miei sogni.

Ero riuscita a superare la timidezza che mi aveva assalito appena lui si era avvicinato. L’acqua calda ci avvolgeva, eravamo immersi sino al petto. Stringendomi a lui, gli avevo detto che era la prima volta. Lui mi aveva guardato con dolcezza e mi aveva accarezzato una guancia, quindi mi aveva detto di non preoccuparmi e che mi amava. Era accaduto tutto con molta naturalezza, non lo avrei mai immaginato. Credevo che avrei avuto bisogno di chiare indicazioni da parte sua, ma non erano servite. Ci muovevamo insieme, nell’acqua che rendeva le cose ancora più semplici. Eravamo leggeri e i nostri movimenti fluidi e sinuosi. In alcuni momenti sembrava che stessimo danzando.
Ci eravamo salutati, quella notte, felici e pensierosi perché la situazione si era decisamente complicata. E a casa io non ero riuscita a dormire perché non avevo fatto altro che rivivere quei momenti magici nella mia testa.
Le poche volte che ci eravamo visti dopo quella sera, avevamo vissuto le giornate senza pensare al domani, il domani era già segnato: avevamo assaporato ogni secondo del nostro tempo insieme, sapendo bene che sarebbe finito tutto troppo presto. 

Il periodo insieme era durato pochi giorni ed era stato tanto intenso da sembrare un’eternità, poi era arrivato il momento dei saluti, quelli dolorosi, quelli definitivi. Avevamo passato insieme tutta la giornata ed erano circa le tre del mattino, l’indomani lui doveva partire all’alba, il tempo era proprio finito: mi aveva dato una sua fotografia, scrivendoci una breve dedica dietro “Per la prossima vita che vivremo”. E poi mi aveva detto:
− Così non ti scorderai di me!
Io avevo risposto, un po’ stizzita, ma sorridendo:
− Forse è più probabile che sarai tu a scordarti di me: non sono io che mi sposo tra una settimana!
Lui aveva sorriso e, fattosi serio, mi aveva detto:
− Io non ti scorderò mai. Ti auguro di essere felice anche senza di me. Spero che un giorno incontrerai qualcuno che ti saprà dare l’amore che meriti, quello che non ho potuto darti io. Tieni… Questi te li dedico dal profondo del cuore. Li ha scritti un gran Poeta, ma se sapessi mettere su carta i miei sentimenti, ti direi queste cose… è come se li avessi scritti io, ne condivido ogni parola.
Così dicendo, mi aveva messo in mano un foglio di carta su cui aveva scritto alcuni versi di Pablo Neruda:
"Ma tutta la mia vita non sarà che un canto di nostalgia per la felicità perduta… ti auguro di dimenticare presto il mio nome e di trovare un amore che ti dia soltanto gioia. Ti seguirò da lontano con la fedeltà del ricordo e sarò felice di saperti felice all'infuori di me. Me ne andrò per le strade con il tuo sorriso dentro il cuore e a qualche ombra che mi sfiorerà darò il tuo nome perché la mia anima le risponda".
Avevo letto quei versi con il cuore che mi scoppiava dentro e li avevo letti così tante volte che avevo subito imparato a memoria ogni parola. 
Dopo pochi minuti ci eravamo salutati. Lui mi aveva detto:
− Lasciarti è la cosa più difficile che abbia mai dovuto fare. So che ti rimpiangerò per tutta la vita… 
Simulando una sicurezza e una decisione che non mi appartenevano affatto, certa che, nonostante l’età, avrei dovuto essere io la più risoluta, gli avevo risposto: 
− Buona fortuna! Ti auguro anche io di essere felice e spero che non ti penta mai della scelta che hai fatto. E anche io ti rimpiangerò per tutta la vita.
Dette queste ultime parole, gli avevo dato un bacio sulla guancia ed ero scesa dalla macchina. Ero corsa verso il portone senza voltarmi indietro, se lo avessi fatto non ce l’avrei fatta a lasciarlo andare via. Avevo sentito il rumore della sua vecchia Cinquecento che si allontanava nella notte silenziosa. 
Quella notte avevo pianto a lungo.


Per la versione della storia dal punto di vista di lui, qui.